Cenni storici

 

Le origini di Malito sono molto incerte. Alcuni storici hanno sostenuto che Malito fosse stata fondata intorno all'anno 986, dai profughi cosentini  scappati dalla città, in seguito alle devastazioni dei Saraceni del feroce Abulcasimo e fondarono quei paesi che furono poi chiamati Casali di Cosenza. Secondo altri invece, l'origine di Malito sarebbe molto più antica, quindi preesistente ai Casali e addirittura risalirebbe al tempo dei Romani: ciò troverebbe conferma nel ritrovamento di ruderi e di sepolcri pagani.
A tal riguardo c'è da segnalare una lastra in pietra scolpita, di foggia molto particolare che si trova sul portale di un'abitazione del Centro Storico nei pressi della Chiesa Matrice di Sant'Elia. Di certo si sa, da saggi di scavo, avvenuti nell'area dei Campi di Malito, che la strada iniziata dai romani nel 132 a.C. per collegare Capua a Reggio Calabria, attraversava i Campi di Malito. Fu terminata dopo quattro anni di lavoro su progetto del console Publio Popilio Lenate e dal suo nome fu chiamata "Popilia". Di essa in località Conicella resta un tratto che oggi è andato quasi completamente distrutto per l'incuria del tempo e degli uomini.
Non ci sono fondamenti storici, circa la battaglia che sarebbe avvenuta nel 280 a.C. nei Campi di Malito, fra Pirro re dell'Epiro e i Mamertini (Martoranesi). Sembrerebbe che quando le sorti della battaglia si stavano mettendo male per Pirro, questi avrebbe esclamato: "Pugna Male Ita", in altre parole la battaglia è andata male. Secondo alcuni proprio da tale affermazione sarebbe derivato il nome Malito. Testimonianza della battaglia dovrebbe essere il ritrovamento di una pietra su cui è scolpito un serpente che era il simbolo di Pirro.
Secondo Vincenzo Padula il nome Malito deriverebbe dall'ebraico Maleto che vuol dire collina, con riferimento alla collina Evoli su cui sorge l'abitato. Con gli anni Maleto diventò poi Malito. Ma ci sono anche i sostenitori della tesi secondo cui Malito deriva dal latino Malum, melo, in quanto i Campi di Malito, un tempo erano una distesa appunto di meleti o pescheti.
Le notizie certe su Malito iniziano in ogni modo, con i Cento Casali Cosentini, che ebbero gli stessi privilegi della città Bruzia e non furono mai considerati dei vassalli, al punto che le genti dei Casali venivano anche denominate Cosentine. Intorno l'anno 1000, i Casali furono ripartiti in venti Preture o Baglive che erano delle istituzioni che delimitavano il territorio amministrato dal Baglivo. Quest'istituzione durò fino all'avvento del Codice Napoleonico del 1806. Ma il Baglivo era anche una struttura amministrativa che raccoglieva i tributi; infatti, il Baglivo era un delegato regio che censiva le famiglie, dette fuochi, e i beni tenuti da esse: a tal proposito, si sa che si versava un tomolo di grano per ogni paio di buoi posseduto dai fuochi, cioè dalle famiglie.

 

 

 

                                              In Malito i profughi cosentini si insediarono in una zona che prese da loro il nome di Casalini attualmente denominata Piazza Mancini, e in riferimento ad essa la zona più a nord del paese fu chiamata Supra Casale per distinguerla da quella che sorse più a sud detta invece Mpedicasale. Nella Storia dei Cosentini, Davide Andreotti dice: "...nelle feste di Federico II, Malito adottò per stemma: Turricolae Latrunculorum tres argentae, totidem que obliqua aurea baltea. Stemma che rassomiglia a quello della famiglia Rocchi, di cui erano forse le terre di Malito e Belsito all'epoca che i Cosentini emigrati quivi si rifugiarono negli anni 977 dell'era volgare secondo Aceti".
Gli anni 1638 e 1672, furono per Malito molto luttuosi: il primo perchè legato al terremoto che sconvolse l'intero territorio calabrese, uomini e cose, che avvenne il sabato delle Palme, mentre erano in corso le Quarantore in tutte le Chiese della Valle del Savuto. L'anno 1672 è stato nefasto perchè collegato invece ad una carestia che fece tra le popolazioni numerosissime vittime, al punto che gli anni che seguirono cominciarono a contarsi da zero proprio come se la vita cominciasse da allora. Forse nacque allora il detto popolare malitese: "D'u tempu d'a mala annata" cioè "Dal tempo dell'annata cattiva, funesta". Negli anni che seguirono ci furono anche altre calamità, come le devastanti epidemia di colera, ma in questi casi furono adottate delle contromisure, diremo oggi di prevenzione, molto rigide: infatti a nessuno era permesso entrare nell'abitato di Malito se non si assoggettava prima a quarantena. Questa consisteva nella permanenza per un periodo di circa quaranta giorni in una casetta rustica sita in una località molto lontana dall'allora centro abitato, per assicurarsi che il viaggiatore non fosse portatore di contagio.
Negli anni intercorsi tra questi due eventi c'è da segnalare anche la vendita di ben ottantadue Casali da parte della Regia Corte di Napoli, per motivi certamente economici, e tra questi si annovera anche Malito. Trascorsero però solo tre anni per la successiva reintegrazione al demanio di Cosenza. Negli anni che seguirono, anche in Malito, in coincidenza dell'instaurazione della Repubblica Partenopea, fiorì una parentesi di rinnovamento ma terminò nel ripristino del potere Borbonico a cui fecero seguito delle dure repressioni.


Nel 1806, ci fu l'invasione dei Francesi intorno alla quale si tramanda la seguente leggenda popolare. Si dice che quando i soldati Francesi giunsero nei pressi di Malito, precisamente nella frazione denominata Marra, allo scopo di saccheggiarla così come avevano fatto negli altri paesi limitrofi, avrebbero incontrato una donna che pregò loro di non fare del male ai Malitesi. I Francesi giunti nell'abitato, entrarono nella prima costruzione che trovarono che era appunto la Chiesa della Concezione nella quale con estrema meraviglia, si accorsero che la statua della Madonna era la copia esatta della donna che aveva incontrato sulla loro strada e che li aveva esortati a desistere dal saccheggiare Malito. Per questo si narra che essi, credendo in un miracolo, non solo non fecero del male ai Malitesi, ma donarono loro anche un ostensorio, certamente saccheggiato altrove prima di proseguire il loro luttuoso cammino per gli altri paesi dei dintorni e che si conserva tuttora nella Chiesa di Sant'Elia.
Ma Malito era anche nota nel circondario come il paese dei Briganti, c'era un detto infatti che recitava così: "Malitu, malu situ e mala gente; puru l'erbe su' fetente". Tra i briganti malitesi sono entrati nella leggenda un certo Pietro Cappello, un certo Tingheo e i fratelli Giacomo e Giovanni De Chiara, noti come Iachi De Chiara. Delle loro gesta ancora oggi si parla i nonni le raccontano ai nipotini accanto ai focolai nelle fredde serate invernali. Alle avventure di questi sono legati anche dei detti popolari e infatti ancora oggi si dice: "Me pari nu cappeddu" quando ci si rivolge a qualcuno che è violento, arrogante o prepotente, che si fa derivare appunto dal nome del bandito Pietro Cappello. Si dice anche che il bandito usava il fucile per i suoi omicidi, soffiava poi nella sua canna per scacciare con questo gesto lo spirito del morto attratto nell'arma dallo sparo. Le spiegazioni, il perchè di tanta violenza sono molteplici: una sicuramente è stata generata dal malcontento popolare, dal fatto che ai ricchi tutto era permesso, commettevano soprusi, prepotenze e angheria che vedevano la povera gente soccombere.
Al Risorgimento Malito diede un notevole contributo: contro la tirannide dello straniero sorsero delle sette carbonare, i cui fondatori erano originari della vicina Altilia, le quali avevano lo scopo di anelare alla libertà, all'unità della Patria e all'indipendenza dell'Italia.
Malito, così come tutti i paesi limitrofi, ha conosciuto fortemente la piaga dell'emigrazione: negli anni 40 e 50 del novecento, nel paese il fenomeno migratorio assunse proporzioni gigantesche tanto che fu letteralmente desertificato. In sostanza rimasero solo donne e bambini perchè tutte le forze lavoro erano emigrate verso l'America, l'Argentina, il Brasile o il Canada. Questo fenomeno ebbe anche alcuni sviluppi positivi, in quanto restituì alle finanze locali le risorse degli emigranti.

 

 

                                    Alla fine degli anni '60, per la presenza di Giacomo Mancini al Ministero dei Lavori Pubblici è stata realizzata una spettacolare impresa: si è spazzata via un'intera collina, quella della Serra, e si è nel contempo passati al riempimento della Vallata del Turchiello. Al posto della collina ora sorge la cosiddetta Cittadella dello Sport, dove troviamo un centro nuoto riscaldato e coperto, una palestra coperta, un grandissimo edificio polivalente, campi da tennis e da pallavolo, di basket e calcetto, campi da bocce, una pista ciclabile, lo stadio comunale nonché aree di verde pubblico attrezzate.

 

 

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